08.02.2018
Helianthus Val di Sole

ME TOO

In Italia, secondo l’Istat, una donna su 3 tra i 16 e i 70 anni (31,5%) ha subito una violenza o molestia sessuale. In tutto sono 6 milioni 788 mila.

Lecito supporre che gli uomini autori di tali atti siano altrettanti, o poco di meno.

In ambito lavorativo l’8,9% delle donne è stata molestata sul posto di lavoro.

Un milione e 404 mila vittime.

Numeri enormi. Che però non dicono tutto. Non dicono della paura, dell’intimidazione collettiva, del senso di fragilità che accomuna tutte le DONNE.

E, in Italia, affinchè la fiammata di stupore, meraviglia, tristezza, amarezza, vergogna, rabbia e sconforto, rivendicazione e dolore  non si spenga ci vogliono ancora storie personali, e denunce, tante, ma tante e ancora tantissime altre denunce.

Come quella di seguito, bellissima e, all’apparenza, così normale…

#Metoo non riguarda infatti solo le vittime, ma tutte le donne.
Anche chi, come me, l’ha finora scampata.
Eccomi. Mi autodenuncio. Non sono mai stata molestata sul lavoro.

Fortuna? Merito? Eroismo?
No. Solo fifa. Fifa blu.

Il mio rapporto con il potere maschile (familiare) è stato alimentato da un padre che mi ha sempre stimato, sostenuto, aiutato a crescere, offerto ogni opportunità di studio. Ci sono rimasta secca quando ho capito, all’università, che il rapporto con il potere maschile (professionale) poteva rappresentare anche una minaccia.
Sono stata colta totalmente impreparata, e mi è presa una paura inconscia, che, ho capito solo anni dopo, non solo mi ha fatto alzare delle solide barricate auto-protettive ma mi ha indotto spesso a scappare a gambe levate da situazioni che potessero essere anche solo velatamente ambigue.

Una paura che ha condizionato molte delle mie scelte di lavoro.
La mia prima rinuncia dovuta alla fifa è stata decidere di non chiedere la tesi sulla mia materia preferita. Il professore era il classico barone potentissimo. Chiacchierato. Che interrompeva la lezione per una bionda che entrava in ritardo in un’aula magna di 150 studenti, e se ne usciva con battutine che facevano ridere solo i maschi. Che all’esame mi aveva fatto capire che mi dava 29 invece che 28 in omaggio alla mia presenza (che era occhialuta, arruffata, monacale e sfinita dalla tensione. E meritavo 30, tra l’altro).
Ho optato, codarda, per la tesi con un professore integerrimo di una materia di cui non mi fregava niente.

Il barone l’ho rivisto 20 anni dopo, ad un convegno. Vecchio, curvo e mummificato. Sempre potente. Che si dava ancora di gomito con un collega pari grado, sghignazzando malizioso mentre indicava una studentessa incaricata di girare le slides. Carina nonostante il tailleur-pantalone nero auto-punitivo, tacco basso, senza trucco, i capelli raccolti nella crocchia, lo sguardo basso, mani giunte. Ferma. Seria. L’avrei voluta abbracciare e dirle di scappare da lì, trasmettendole la mia fifa, ma temo ce l’avesse già di suo.

#Metoo riguarda prima di tutto le donne vittime e gli uomini che le hanno molestate. Questa è, come dire, la prima linea di fuoco. Vero fuoco. Ustionante.

Per la quale ci si può solo augurare che aumentino le denunce, le condanne, la solidarietà pubblica per le vittime.

#Metoo rappresenta però, nella sua profondità, una ridefinizione del rapporto di potere economico e sociale tra donne e uomini, e quindi ci riguarda proprio tutte/i.
Riguarda, anche se in modo diverso, pure me, che non ho niente di “reale” da denunciare se non la mia paura, che mi ha certamente “salvata”, ma che mi ha anche impedito di fare scelte che non saprò mai se sarebbero state più giuste o sbagliate per me.

Riguarda anche la studentessa di quel convegno, e mia figlia, e le sue amiche e tutte le altre ragazze di oggi, e di domani, che hanno il diritto di studiare e lavorare senza essere molestate, di fare carriera senza dover scegliere se pagare o meno pegno ma, soprattutto, devono poter decidere della loro vita senza fare i conti con questo tipo di paura.

#Metoo, in fondo, riguarda una battaglia di libertà.